Vivere attimi che dureranno una vita

Rumanel

L'orologio di Ramello

L’orologio da torre viene collocato all’ingresso dell’area espositiva come simbolo di unione ed aggregazione sociale.
Con i propri rintocchi gestisce i ritmi di una comunità operosa che con grande dignità vive, celebra e tramanda la propria memoria storica attraverso una cultura rurale non priva di spunti di elevato livello intellettuale ed artistico.
E proprio uno dei suoi figli, Bertoli Pietro nato a Ramello di Scopa il 04/02/1802, ideò e realizzò un numero consistente di orologi da torre dotati di uno scappamento (è un congegno che mantiene le oscillazioni del pendolo il quale ha la delicata funzione di contare il tempo) libero a gravità ancora oggi unico.
Scappamento che si distingue non solo per le sue originali caratteristiche strutturali, ma soprattutto per la sua affidabilità a lungo termine (l’orologio della torre campanaria della Pieve di Scopa funziona da oltre un secolo e mezzo).
Bertoli impianta un laboratorio da orologiaio in Ramello, espone a Torino nel 1850 uno dei suoi orologi da torre e viene premiato con medaglia d’argento.
Fu anche inventore di un litotritore e lavorò migliorando alcuni sistemi utilizzati in orologeria, quali un pendolo a compensazione, uno scappamento a riposo ed un sistema di carica a bottone (quello attuale) degli orologi meccanici da portare sulla persona.
Muore anzitempo a Scopa nel 1852.
L’orologio esposto viene costruito nel 1874 da un altro Bertoli di nome Martino sempre di Ramello, che utilizza la tecnica del suo predecessore Pietro e, avuto mandato dai capi famiglia della frazione, dal fabbriciere e dal V. Pievano di Scopa Don Alfonso M. Chiara, per contratto realizza l’opera entro un anno dalla data del 23 luglio 1874 al costo di Lire 550.

Rumanel e l'idea di Vita in Montagna

Pensare a quale possa essere la valenza di una così audace visione, che tende ad assaporare ciò che altri hanno provato in un fugace attimo per noi lontano, è il vero senso che ci accumuna in questo istante. Gli oggetti sopravvissuti al naturale logorio del tempo, sono la tangibile testimonianza di come qualcuno, prima di noi, abbia saputo interpretare la vita, nel nostro caso di montagna, attraverso le mille difficoltà quotidiane. Dobbiamo solo fermarci ed ascoltare, in religioso silenzio, ciò che ci può essere trasmesso e coscientemente rielaborato attraverso i sensi.
E’ il continuo desiderio di riscoprirsi e riscoprire, al fine di vincere le avversità dell’esistenza, che alimenta la scintilla della sopravvivenza o per meglio dire della resistenza in montagna. Oggi si vive ciò che pare alle nostre vite come il punto di arrivo, quella conclamata certezza che ci porta a non considerare appieno, ciò che fino a questo momento ci ha condotto attraverso il divenire della nostra storia e del tempo.
Condividere, nel senso di sentire prima di tutto “intimamente nostro”, qualcosa che altri hanno interpretato vivendolo e reinterpretandolo, è il sentimento che viene provato da chi si sente di far parte dell’idea del “Rumanel”. Naturale che la nostra attività debba partire dalla realizzazione di un’esposizione permanente, al fine di canalizzare la discussione verso il concetto del “ricordo”.
E’ per questo che il Rumanel non è solo un luogo di orgogliosa testimonianza delle nostre genti. La sua valenza va ben oltre alla prima ed immediata percezione che il visitatore prova attraversando le sue stanze, intrise di cultura popolare, arte e tradizioni. Prima di tutto è un pensiero, o meglio un modo di pensare, che non poco scontatamente appartiene a tutti noi, indipendentemente da dove siano più o meno saldamente legate le nostre origini. Tale idea deve costituire il punto di partenza per vivere in maniera personalissima il viaggio tra le stanze della memoria, attraverso la riscoperta dei nostri ricordi.
L’esploratore, dolcemente accompagnato lungo il percorso del Rumanel, si spera possa arrivare idealmente a dipingere attorno a se le proprie sensazioni e a coglierne i più intrinseci profumi, plasmando così la propria idea di vita in montagna attraverso i tempi e le singole esperienze. Diffidiamo di chi ci vuol far credere che esista una singola definizione dogmatica dell’idea di vita in montagna. Ogni uno di noi ne ha una e personalissima.
Vivere in montagna significa prima di tutto amarla per i suoi pregi e difetti. Vi siete mai fermati a riflettere attentamente sullo stato di appagamento che si prova ad esempio la mattina presto in quota, tra le nostre montagne. Il senso di pace e di armonia di quel singolo istante dove dubbi e problemi sgombrano la mente lasciando spazio ad un solo ed unico attimo in cui si sente di far parte della Natura. Un brevissimo istante che ci riempie di nuova energia, di voglia di fare e che lascia immediatamente spazio alla voglia di ricercare un nuovo obiettivo, una nuova salita. Forse è proprio questo che costituisce l’essenza della nostra vita di gente di montagna, la vera ostinatezza che ci lega inforndo tutti come fosse una carattere genetico, indissolubilmente inciso nel nostro DNA.
La ricerca di questo singolo attimo ci porta a rimanere tra le nostre montagne ed a sentire il bisogno di “salire” e “risalire”, di rimanerne immersi assaporandone la bellezza giorno dopo giorno. Questo grande amore, che tendiamo gelosamente a nascondere, è forse il vero legame con le genti passate tra le nostre valli. Diversi gli anni, diversi i problemi da affrontare ma credo che sia quel singolo attimo che ci lega indissolubilmente.
Ecco perché la ricostruzione del Ricordo deve assurgere al ruolo necessariamente più importante. Deve però escludere qualsiasi forma di romantica e nostalgica indagine storica aprioristicamente non ponderata attraverso un fattivo riscontro di ciò che è stato e per ciò che effettivamente è stato.
Si definisce in questo modo l’idea a cui dovrebbero aspirare le nostre nuove generazioni. Capire prima di tutto da dove veniamo al fine di rilanciarsi attraverso i più arditi concetti di globalità economica e sociale, portando con se la caparbietà di chi è abituato e plasmato alla vita in montagna. Consideriamola come la possibile chiave per distinguersi e distinguere il nostro territorio attraverso concetti di eccellenza, così come è potuto esserlo anni addietro dove sacrifici e generosità hanno guidato il popolo delle nostre montagne. 

Silvestro Pianazzi

1807 - 29 maggio. Nasce a Muro di Scopa Silvestro Pietro Gaetano
Pianazzi, quintogenito di Vincenzo e di Angela Arduini, battezzato
nella chiesa parrocchiale dei Santi Bartolomeo e Anna di Scopa.
1818 - Fra il 27 marzo e il 6 luglio si trasferisce a Milano, presso il
fratello Luigi, per frequentare l’Accademia di Brera.
1824 - Vince ex aequo due premi a Brera: uno per “il busto disegnato”
nella Scuola di Elementi di Figura, l’altro per il “disegno dal
rilievo” nella Scuola di Ornato. Entra nelle grazie del pittore
Agostino Comerio, accademico braidense che nel 1827 sarà
nominato a pieni voti professore supplente di elementi di figura.
1825 - 9 agosto. Nuovo attestato accademico basato sul fatto che “il
giovine Silvestro Pianazzi […] fa sperare nell’arte ottima riuscita
per aver dalla Natura sortito un assai buono ingegno”.
1826 - Risulta domiciliato in Piazza del Carmine a Milano, in una
stanza ammobiliata pagata dal Comerio. Oltre agli studi
accademici da pittore, si applica all’arte dell’incisione con l’aiuto
del fratello Luigi.
1828 - Accede alla Scuola del Nudo presso l’Accademia di Brera.
1829 - 7 settembre. Comunicazione del conferimento dell’ennesimo
premio braidense, stavolta per “l’azione raggruppata in disegno”.
1829-1830 - Lavora per il conte bergamasco Guglielmo Lochis,
grande collezionista di opere d’arte. Tra i lavori realizzati, il
disegno (forse preparatorio per l’incisione) del Presepio di
Bernardino Luini oggi all’Accademia Carrara di Bergamo.
1830 - Non intende concorrere per la cattedra di professore di
Disegno alla Scuola di Varallo, rimasta vacante per la morte di
Giovanni Avondo. In settembre parte per Genova, dove lavora per
lo stabilimento tipografico Ponthenier.
1832 - Da Torino, dove risiede dall’aprile dell’anno precedente,
aderisce alla Società d’Incoraggiamento allo Studio del Disegno
fondata a Varallo nel 1831.
1833 - In settembre è in Valsesia “per lavori del Sig.r Bordiga”. In
ottobre viene invitato da Antonio Vianelli, conservatore della
Galleria Sabauda di Torino, a preparare alcuni disegni per i volumi
di Roberto d’Azeglio sulla Reale Galleria.
1834 - Risale a quest’anno il suggerimento del fratello Luigi di
concentrarsi sull’incisione delle opere di Gaudenzio Ferrari, in
collaborazione con Gaudenzio Bordiga. Il primo fascicolo
dell’importante opera editoriale sarà pubblicato l’anno successivo.
1836 - Sono testimoniati rapporti lavorativi con Pompeo Litta,
studioso milanese autore delle Famiglie celebri italiane, per conto del
quale viaggia in Francia e in Piemonte.
1838 - Insieme ad altri sottoscrittori, dona alla Scuola di Disegno di
Varallo un busto in marmo di Gaudenzio Bordiga, morto l’anno
prima, opera di Luigi Marchesi.
1839 - In primavera è per la prima volta ad Altacomba, con l’incarico
di disegnatore e incisore per la Storia e descrizione della Regia Badia.
Lavorerà periodicamente in Savoia fino al 1843.
1843-1844 - Sono terminati i lavori di finitura dei rami per la
pubblicazione su Altacomba.
1845 - Diventa membro di una Commissione Speciale per i restauri al
Sacro Monte di Varallo (28 luglio). Viene inoltre nominato
consigliere della Società d’Incoraggiamento per il biennio
successivo (24 settembre).
1846 - Corre voce, in Milano, di una sua prossima nomina a
Professore di Disegno presso l’Accademia Albertina di Torino.
1847 - 29 giugno. Atto di morte di Silvestro Pianazzi, “d’anni
quaranta di professione incisore nativo del Comune di Scopa,
domiciliato nel Comune di Scopello. […] Il cadavere è stato sepolto
nel Cimitero di questo Comune”.
Silvestro Pianazzi

Gli scapini

Gli scapini valsesiani, detti “scapin”, hanno origini molto antiche, si pensa siano nati attorno al 1200 con l'arrivo dei primi coloni i Walser.                  Il modello tradizionale di Alagna è il più antico: ha la tomaia con la punta quadrata, rifinita da un fiocco, eredità di un modello ancora più antico che presentava due nastri laterali perchè lo scapin si adattasse meglio al piede. Un tempo esso era di colore nero o marrone, oggi vengono prodotti con svariati colori, fantasie e ricami. Lo scapino nasce come calzatura comoda, pratica e resistente da utilizzare in tutte le stagioni.  Per realizzarli venivano usati indumenti rotti o consumati e canapa, il tutto cucito a mano. Oggi lo “scapin” viene usato in molte case, anche fuori dalla Valsesia, come una calda e comoda pantofola. Per la sua realizzazione vi sono varie fasi:                                                             SUOLA: si ritagliano con l'apposito modello (medru) diversi tessuti, come cotone, jeans e tessuti caldi come la lana. Si uniscono alternando i tessuti (cotone, lana...) con un'imbastitura. Si passa poi all'intralatura in modo uniforme la suola.                                                                          TOMAIA: ritagliare sempre con l'apposito modello 4 o 5 strati di tessuto in base alla rigidità di esso e imbastirli tra di loro. Con la macchina fare delle cuciture verticali distanti tra di loro mezzo centimetro. Sulla parte centrale davanti si riprende con delle pieghine (3 o 5) che dipendono dalla misura. Unire la parte anteriore con la parte posteriore della tomaia ed infine bordare solo la parte anteriore con velluto nero. Assemblato il tutto ricoprire la suola, nella parte interna, con un bel sottopiede di lana dopo di che procedere all'attaccatura della tomaia alla suola con un punto indietro, usando corda di canapa, lesna e quarel. Gli scapini tradizionali fatti a Scopa, vengono cuciti ancora oggi con attaccatura interna, mentre è possibile trovarne anche cuciti esternamente più semplici da realizzare. Ora non resta che indossare questi comodi, caldi paio di scapin che ci accompagneranno per molti anni, con la speranza che questa tradizione sopravviva e che i segreti della loro lavorazione vengano tramandati da generazione in generazione.

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